Pensieri

Tre conversazioni con il filosofo Stefano Catucci

 

Pensare la musica, ancora

 

Stefano Catucci – Il titolo di questa nuova edizione della Biennale Musica, Va pensiero, gioca su una citazione popolarissima per indicare un tema tutt’altro che scontato: riavvicinare la musica al pensiero, ovvero far sì che il pensiero – quello filosofico ed estetico in primo luogo – torni a occuparsi di musica, arte che negli ultimi vent’anni sembra essere vissuta “al riparo” dal pensiero, come se avesse voluto liberarsi da un impaccio. Vorrei chiederti anzitutto se trovi una linea di continuità fra questa esigenza di tornare a pensare la musica – a farla pensare, anche – e quel che è accaduto nelle edizioni precedenti da te dirette.

 

Giorgio Battistelli – La prima edizione che ho diretto, due anni fa, si intitolava Venezia, la musica e il mondo, e aveva lo scopo di far leva sulla qualità unica di Venezia come torre d’avvistamento planetaria per gettare uno sguardo su ciò che rende oggi particolarmente inquieto il panorama delle pratiche musicali: non si trattava, perciò, di un’osservazione neutrale, ma di uno sguardo rivolto ai turbamenti che la musica sta vivendo. L’anno scorso l’edizione intitolata La musica e il suo doppio metteva in questione i rapporti fra musica e tecnica, musica e scena, musica e parola, dunque non uno, ma una serie di “doppi” che per la musica rappresentano altrettante occasioni di pensiero. Credo siano state due tappe di avvicinamento a un problema che ora ho cercato di porre in maniera più esplicita, anzi nel più esplicito possibile dei modi, nella convinzione che il compito di pensare la musica oggi, come recita il titolo di un vecchio libro di Pierre Boulez, sia diventato più urgente che mai.

 

Catucci – Ma quando Boulez scriveva quel libro, al principio degli anni Settanta, la musica non soffriva forse di un eccesso di pensiero, spinto fino all’ideologizzazione di un’estetica?

 

Battistelli – Nei miei quaderni di appunti ho segnato una frase di Carmelo Bene, presa da una sua intervista: «la musica contemporanea è molto pensata, anzi pensosissima, strapiena di cavilli, di pensieri, c’è troppa oggettività». Credo che la musica di quegli anni fosse così preoccupata dalla cancellazione del soggetto da aver perduto uno dei suoi campi proiettivi fondamentali, con parole non mie lo chiamerei la dimensione dell’incanto. È un’intuizione di Massimo Cacciari che ho annotato nello stesso taccuino: «dal momento in cui ci siamo allontananti da una dimensione di incanto rispetto al suono, il nostro orecchio si è rivolto all’ascolto dell’immagine». Credo che il bisogno di pensare la musica, oggi, si collochi al livello di questo cambiamento, di ciò che porta con sé e che è rimasto ancora impensato, di quell’eccesso di oggettività dal quale la musica sembra aver preso le distanze, ma correndo il rischio di cadere in un eccesso opposto, quello dell’ingenuità.

 

Catucci – La scelta di un titolo popolare come Va pensiero mi ha fatto pensare a una conversazione di tanti anni fa con Giuseppe Sinopoli. Raccontava della sua scoperta di Verdi, e in particolare proprio del Nabucco, nel periodo nel quale aveva abbandonato la composizione, dopo la sua Lou Salome, e si sentiva annaspare nell’incertezza. Dopo anni dedicati a una musica nella quale il segno era studiatissimo, calcolato al millesimo, rinunciando alla resa emotiva del suono – all’incanto, se vogliamo -, ecco l’incontro con un autore che del segno si cura pochissimo, ma che da soluzioni strutturalmente elementari è capace di trarre una potenza emotiva altissima. «Verdi è questo: arte povera», disse, e dava a intendere che quell’incontro aveva avuto per lui il senso di una liberazione.

 

Battistelli – È una delle strade possibili, e del resto è stata percorsa non solo dal minimalismo americano, nella via che va da La Monte Young a John Adams, ma anche da autori dell’Oriente europeo come Gya Kancheli, Arvo Pärt etc. L’importanza di questi tentativi io la vedo nel desiderio di riabilitare l’ascolto dell’esperienza, senza limitarsi all’oggettività nella manipolazione del materiale musicale. Quando ci si concentra troppo sul materiale si toglie valore all’ascolto dell’esperienza, che d’altra parte comporta anche la discesa in un registro retorico e chiede che si nutra, e si ascolti, anche un sentimento. È come se si fosse voluto opporre un tipo di intelligenza musicale più immediata, “naturale”, a una più pensata, più ragionata, ma che non per questo è automaticamente più importante.

 

Catucci – Ed è per questo che la musica ha cercato di “liberarsi” dal pensiero, come dicevo prima. Dagli anni Settanta, oltretutto, la tecnica ha avuto sviluppi straordinari: l’elaborazione elettronica del suono non è più appannagio di pochi centri di ricerca istituzionali, ma è accessibile potenzialmente a tutti con un buon Pc, e il parametro del “controllo” esercitato sul materiale, considerato un tempo il discrimine fra composizione ingenua e rigorosa, è affidato quasi più alla competenza informatica che non al bagaglio della preparazione accademica. In questo ambito sembra realistica una vecchia profezia di Brian Eno, quella secondo cui gran parte della produzione musicale più avanzata diventerà opera di non-musicisti, cioè di artisti privi di preparazione classica e spesso incapaci anche di leggere il pentagramma.

 

Battistelli- In parte è una profezia già avverata. Basti pensare ai procedimenti di giustapposizione con cui lavorano i Dj. Si frantumano e segmentano dei materiali preesistenti fino ad atomizzarli e poi a riunirli intorno a dei centri di condensazione molto riconoscibili, nei quali precipita anche un’energia collettiva: ritmi ostinati, pulsanti, esposizioni e cambiamenti timbrici che ritroviamo anche al cinema o in televisione, ma resi più astratti. La loro è una tecnica di montaggio più vicina a quella del materiale visivo che non alla composizione classica, nella quale la relazione fra ciò che precede e ciò che segue, fra antecedente e conseguente, è sempre centrale. In queste nuove tecniche non si è condizionati in alcun modo dalla storia del materiale, anzi questa storia viene neutralizzata persino in quella dimensione minima che riguarda il suo decorso all’interno di un singolo brano. I materiali, allora, diventano tutti omogenei: si può prendere una scheggia di canzone rock o di una Sinfonia di Mahler, come pure il rumore di un vetro che si rompe – è un esempio intensivo di globalizzazione. 

 

Catucci – Eppure un attento osservatore dell’avanguardia storica, Luigi Rognoni, di fronte ai primi esperimenti di musica elettroacustica vedeva aprirsi la possibilità di un ritorno verso la “natura” del suono contro le mediazioni e gli artifici di un sistema armonico come quello occidentale, temperato, che in fondo anche la dodecafonia aveva lasciato intatto. Cito (Rognoni scrive nel 1966): «l’aspetto più importante, la cui portata è impossibile valutare oggi in tutte le sue conseguenze, risiede nel profondo significato umano che va acquistando l’esperienza della musica elettronica; la quale si presenta oggi non tanto e ancora come un mero problema artistico, quanto come una via aperta verso un insperato “ritorno alla natura” del linguaggio dei suoni che consenta all’uomo di ritrovare veramente se stesso». L’equivalenza tra il suono di uno strumento musicale e quello campionato “dal vero” non è un passo in questa direzione?

 

Battistelli – Anche quel che diceva Rognoni in parte si è avverato, ma proprio per questo io credo che non l’incontro con la “natura” del suono, ma la ricerca di una sua nuova dimensione di incanto sia il problema che la musica deve porsi, se pensiamo ancora alla musica come a un’arte. Rispetto al passato, quindi, non è più questione di trasgredire, di passare il limite, ma individuare i campi proiettivi nei quali l’incanto è ancora possibile, o lo è di nuovo. Il nostro spazio musicale è oggi saturo di materia proveniente da ogni angolo della storia e della geografia: abbiamo accesso a un repertorio immenso, possiamo ascoltare nello stesso giorno un canto siberiano, un mottetto fiammingo, un’aria d’opera di un minore settecentesco, una registrazione rara di Miles Davis, un pezzo rock e un movimento di una sinfonia di Bruckner. I suoni innovativi vengono più spesso dalla sperimentazione elettronica dei Dj o dal rock che dalle ricerche dell’Ircam di Parigi. Ma questo significa solo che l’elemento tecnologico e l’invenzione di un suono non garantiscono più nulla al livello dell’innovazione musicale in senso proprio. Il problema è piuttosto come inventare una forma capace di rispondere a una materia così sovrabbondante, è come articolare un pensiero. Fino a cinquant’anni fa la musica si concepiva ancora in un asse diacronico, per cui contava confrontarsi con il passato e saper ricostruire la genealogia del proprio linguaggio. Oggi domina la verticalità dell’ascolto, c’è totale compresenza, dai neumi in campo aperto alla techno.

 

Catucci – In musica questo è particolarmente evidente, ma è un fenomeno che va al di là della musica: una concentrazione sul presente che ha come corollari non solo il rifiuto del passato, ma anche la difficoltà di immaginare il futuro.

 

Battistelli – Non riguarda solo la musica, certo. Ma insisto sulla parola “arte”: se la musica vuole e può ancora pensarsi in questo modo, credo non debba riflettere su di sé in termini di funzione sociale, di tecnica o di scrittura, ma in primo luogo come relazione con l’ascolto. 

 

Catucci – Dall’esigenza di riaprire il confronto tra la musica e il pensiero mi pare venga anche il bisogno di una nuova estetica musicale ancora tutta da scrivere. Qualche contributo comincia a emergere, negli ultimi anni, in questa direzione, anche se in modo sparso. E quel che vedo profilarsi all’orizzonte è un ritorno alla nozione di “autonomia” della musica come arte: autonomia dal mercato, dal mainstream, dal già-sentito, ma soprattutto autonomia etica, non solo estetica, se si vede la musica come una possibilità di costruire se stessi. Per usare il linguaggio dell’ultimo Foucault, la musica andrebbe intesa quasi come una “tecnologia del sé”, ma di un “sé” allargato che, tramite l’ascolto, diviene subito collettività, comunità. 

 

Battistelli – Quello dell’autonomia è un principio importante, anche se il sistema produttivo oggi tende a ridurre al minimo gli spazi di autonomia possibile. Autonomia, credo, è però anche la capacità di dare forma sonora a un’immaginazione condivisa ma che, senza quella forma, senza quella musica, non percepiremmo affatto. Ovvero la capacità di cogliere quei campi proiettivi nei quali le forme dell’immaginario prendono le sembianze del suono.

 

Catucci – Vogliamo vedere in concreto come queste parole si riflettono sul programma della Biennale Musica di quest’anno?

 

Battistelli – Il programma di quest’anno segue essenzialmente due linee. Una rivolta all’esplorazione delle pratiche musicali contemporanee, l’altra alla messa in questione dell’esperienza dell’ascolto. Un osservatorio e un laboratorio, insomma, come la vocazione storica della Biennale Musica richiede. Chiaro che la relazione fra musica e pensiero è maggiormente in primo piano quando si tratta di tematizzare l’ascolto. Penso all’installazione di Brian Eno che verrà allestita allo Spazio Cisterne dell’Arsenale e che accompagnerà tutta la durata della Biennale Musica: qui il mezzo tecnologico diventa strutturante e definisce uno spazio sonoro dove la dimensione percettiva sarà diversa da quella di un normale concerto. Anche la serata di inaugurazione, con Symposion, va letta in questa direzione: una maratona di sette ore, con musiche del repertorio novecentesco diventate ormai classiche, da Mahler al Terry Riley di In C, fino a prime esecuzioni assolute di nuove composizioni. Un concerto anomalo, affidato al Klangforum Wien, durante la quale si mangerà, si berrà, verranno lette riflessioni filosofiche, il tutto con l’idea di far percepire non solo il contenuto, la musica, ma anche la cornice, così da far emergere in primo piano il gioco delle condizioni in cui si ascolta. Un’alterazione ancora più plateale sarà poi quella proposta da Michel Redolfi alla Piscina di sant’Alvise, dato che i musicisti suoneranno immersi nell’acqua e per ascoltare il pubblico dovrà immergersi a sua volta, tenendo sott’acqua almeno la testa. La vibrazione dell’onda sonora passerà non attraverso l’aria, ma appunto attraverso l’acqua. Ma al di là della singola performance, l’idea è quella di individuare le zone di crisi nelle quali la musica contemporanea si confronta con la dimensione dell’ascolto. Anche coinvolgere un gruppo di rango come l’Ensemble Modern in una serata di improvvisazione con musicisti indiani è un modo di giocare con i perturbamenti dell’ascolto, e così sarà con Bob Ashley, autore americano del dopo-Cage che mescola musica elettronica e parola, anche a più voci, dando l’impressione di essere stato un geniale anticipatore della musica rap, oggi riscoperto in questo senso dallle giovani generazioni. 

 

Catucci – Anche quest’anno verrà proposta una composizione poco nota di Luigi Nono.

 

Battistelli – Sì, Fucik Project. Sarà la prima esecuzione italiana, la prima assoluta essendo stata fissata a inizio maggio 2006 alla Biennale di Monaco di Baviera. Ma oltre al lavoro su Nono, che rappresenta ormai una costante della Biennale, vorrei sottolineare la volontà di rilanciare la sua apertura internazionale, di fare cioè della Biennale Musica un partner ideativo e produttivo coinvolto alla pari con altre istituzioni di prestigio, e non solo in  Europa. La presenza dell’Ensemble Klangforum come gruppo musicale “in residence” è significativa, da questo punto di vista, non solo perché si tratta di una delle formazioni migliori al mondo nel campo della musica contemporanea, ma anche perché ognuno dei tre progetti nei quali è coinvolto – Symposion, Fama di Beat Furrer e un concerto con musiche di Helmut Lachenmann e Georges Aperghis – è stato pensato per Venezia, e il lavoro di preparazione è stato così coinvolgente che abbiamo chiesto ai musicisti di Klangforum  di tenere una giornata di studi per compositori e interpreti strumentisti al Conservatorio di Venezia sulle tecniche interpretative ed esecutive inerenti alla scrittura musicale contemporanea.

 

Catucci – L’apertura internazionale si riflette anche nel sistema delle coproduzioni con altri Festival, un aspetto che nell’edizione di quest’anno mi sembra diventato addirittura sistematico.

 

Battistelli – Coprodurre non è solo una maniera di ripartire i costi di un progetto, di una commissione, di un allestimento, ma è soprattutto un modo per proiettare l’esperienza di un Festival oltre i suoi limiti geografici e di calendario, rendendo il suo programma parte di una macchina molto più estesa e ramificata. Che la Biennale Musica torni a essere il fulcro di un sistema di coproduzioni significa immaginarla come un centro d’irradiazione di nuove idee e nuove iniziative non destinate a esaurirsi nell’arco di una sola manifestazione, o in un’area di circolazione solo italiana, ma da comprendere in orizzonti più vasti. Quest’anno abbiamo stabilito rapporti di coproduzione con molte istituzioni e gruppi: da Musicadhoy di Madrid al Festival di Città del Messico, dal Festival d’Automne di Parigi al Berliner Festspiele,  dal Musik der Jahrhunderte di Stuttgart al Teatro Español di Madrid, da MusikFabrik di Colonia alla  Kunststiftung NRW,

per citarne alcuni. Ma soprattutto ci tengo a sottolineare la preziosa collaborazione e intesa culturale con il Teatro La Fenice, un rapporto che si sta sviluppando in maniera proficua e che si pone come una rarità nel panorama musicale italiano.   Queste collaborazioni hanno reso possibile la creazione di Brian Eno su nostra richiesta di una installazione sonora allo Spazio Cisterne dell’Arsenale, alle  commissioni di una nuova composizione a Wolfgang Rihm, Vigilia, o la realizzazione di Fama, di Beat Furrer, e  di  Murmullos del páramo del messicano Julio Estrada, o ancora le commissioni che abbiamo dato come Biennale a compositori come Giacomo Manzoni, Valerio Sannicandro, Adriano Guarnieri, Xavier Torres Maldonado, Massimo Botter e per finire le numerose composizioni in prima esecuzione italiana.  Pensare la musica, pensarla in concreto, non significa solo porsi questioni di ordine estetico o filosofico, ma anche rispondere a precisi problemi di relazione con il mercato, con gli scambi internazionali, con i limiti di ricezione tipici della musica contemporanea di ricerca. Per rispondere anche a una domanda di tipo organizzativo, pratico, un Festival come la Biennale deve però proiettarsi oltre i suoi confini naturali e farsi “pensante”. Deve immaginare la musica nelle sue forme e nelle sue possibilità di esecuzione. Deve coinvolgere energie e liberarle dando loro lo spazio di cui hanno bisogno. Deve tentare di farsi soggetto produttivo e nodo di una rete di scambi. Venezia, da questo punto di vista, offre opportunità uniche. Non coglierne le potenzialità sarebbe come commettere un delitto contro la musica: contro il suo possibile futuro.